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Sviluppo tecnologico e innovazione

Il dardo spaziale per salvare la Terra

04 Ottobre 2022
Federico Cella, Michela Rovelli

È il nome inglese delle “freccette” ma la traduzione migliore è senz’altro “dardo”. Data la funzione svolta, anche se il progetto DART è anche un acronimo: Double Asteroid Redirection Test. Lo scenario è quello di diversi film di fantascienza catastrofici. Alla Armageddon per capirci. E in assenza della certezza di avere un Bruce Willis a disposizione, la Nasa ha voluto testare un sistema di difesa planetaria nel caso un asteroide si trovasse in rotta di collisione con la Terra. Alla fine di settembre è dunque avvenuto l’impatto – come twittato dall’ente americano “Impact success!” – tra la sonda e l’asteroide Dimorphos, in realtà un oggetto spaziale piuttosto pacifico ma che negli studi degli ingegneri americani è risultato essere un campo di prova interessante.

La sonda Dart si è distrutta nell’impatto, una fine prevista e salutata dal successo della sua missione. Era partita dalla Terra alla fine di novembre del 2021, con una massa di più di 600 chili e un corpo centrale da 1,3 metri di lato. Il suo obiettivo, lontano dalla Terra circa 11 milioni di chilometri, aveva (e ha tuttora) una larghezza massima di 160 metri: lo scopo della missione non era distruggerlo, ma deviarlo dalla sua traiettoria. Nello specifico, un’orbita intorno a un asteroide più grande, Didymos, quest’ultimo con un diametro massimo di 780 metri. I dati della missione sono ancora da analizzare, ma gli studi prevedevano che dopo l’impatto con Dart, l’asteroide più piccolo si sarebbe avvicinato lievemente a quello più grande, riducendo di una decina di minuti il periodo orbitale.

Missione compiuta, e grazie anche a un interessante contributo italiano. Non solo ad accompagnare Dart nel suo viaggio di quasi un anno c’era LICIACube, un satellite grande come una scatola da scarpe - gestito dall’Agenzia spaziale italiana e costruito dall’Argotec di Torino – con lo scopo di testimoniare fotograficamente l’avvenuto impatto, ma era in un certo senso anche il cuore del satellite americano a battere a ritmi italiani. Parliamo della cosiddetta “bussola spaziale” che di fatto ha permesso a Dart di compiere in autonomia gli ultimi passi della missione: ebbene, questo navigatore delle stelle è stato realizzato a Campi Bisenzio, vicino a Firenze, negli stabilimenti Leonardo (ex Galileo). Qualunque sia il destino dell’essere umano, dopo la missione di Dart è molto probabile che non seguirà quello piuttosto triste toccato ai dinosauri circa 60 milioni di anni fa.